In mostra al Mart , Rovereto, fino al 26 maggio 2010

Non è facile avventurarsi tra le sale del Mart che espongono circa 200 opere della scenografica e corposa mostra "Dalla scena al dipinto". Si percorre la storia dell'arte del XIX e XX secolo attraverso il teatro, provando quanto i due mondi si siano contaminati, cercati, voluti  ma anche allontanati, disamorati e rifiutati per l'esigenza di rivendicare i propri spazi e la propria libertà di espressione. Vi racconto ciò che ho visto.

La potenza neoclassica di David nel Giuramento degli Orazi mi accoglie con la sua idea di sublime rassicurante, ricordandomi la teatralità di Corneille e di Racine. Ma tra miti, storia romana e greca il mio passo corre a rifugiarsi nel buio accecante di Füssli che tra neoclassicismo e romanticismo mi racconta delle streghe del Macbeth e della morte  di Cordelia, figlia prediletta di Re Lear. Opere sensazionali, dove il sublime è tempesta della psiche.

Sono tempi in cui la natura non è più panacea di ogni contrasto, rassicurante rifugio dell'animo, non rispecchia la creazione divina e l'arte deve chiedere aiuto alla filosofia. Kant parla di bello assoluto, Il bello è bello sempre. Poco importa cosa un'opera rappresenti; ciò che invece conta è l'armonia. Ma non tanto l'armonia delle forme in se stesse, quanto l'armonia che esse producono in noi, nella nostra mente. E' bello un dipinto, ma anche un fiore, un tramonto, un sentimento.

Ed ecco che languidi e sognanti Paolo e Francesca di Ingres incantano nei colori vivaci e squillanti per tenerezza e relazione; le cui forme sgraziate hanno orientato e insegnato a  Cézanne e a Picasso un'arte mentale, pensata più che guardata.

Delaroche e Delacroix fanno a gara per bravura e suggestione. Quanto chiude con il suo pennello perfetto e noir Delaroche (inquietante l'attesa dei due figli di Edoardo), quanto allarga con toni vibranti Delacroix regalandomi momenti di lucida follia(sublime lady Macbeth).

Previati nella sua scapigliata pittura italiana regge e supera il confronto con artisti francesi quali Cabanel e Gérome più distaccati e mentali. Figli di un estenuante romanticismo.

Ma ormai sono salva. Degas, Daumier Lautrec, maestri della modernità,  sono pronti ad alleggerirmi e raccontarmi la storia dell'arte da un altro punto di vista, non più centrale, non più legato al dramma, all'attore, a Shakespeare, ma al corpo, alla figura umana. Intense le tele di Degas. Prima o dopo il passo di danza. Le cattive maniere esibite e comprese da  Lautrec. Il grottesco e il denunciato mondo del serio Daumier.  Si guarda finalmente con libertà, dall'orchestra, dal pubblico, da te stesso seduto in prima fila o sbraitante dal loggione.

Nelle ultime sale ormai  il simbolismo sfalda e sfrangia non solo il colore e lo spazio, ma rende l'invisibile con gli occhi chiusi del veggente di Redon o della Salomè tatuata a metà di Moreau: l'essere rispetto all'apparire.

Purtroppo la parte più bella per me quella dedicata ad Adolphe Appia e Gordon Craig, maestri del teatro d'avanguardia,  è relegata in fondo nelle ultimissime sale. Quel dommage! Il teatro, quando finalmente si riappropria del movimento, è poco rappresentato in mostra. L'astrazione,  la scrittura scenica dove luci, musica, pannelli mobili (screens) e l'attore stesso come maschera trasformano lo spazio, lo modellano, lo rendono espressivo, non conquistano le luci della ribalta. Forse si poteva rinunciare a un po' di neoclassicismo e qualcosa di romanticismo per consentire a Isadora Duncan di danzare a piedi nudi … in uno spazio quello del Mart non del tutto rispettato nella sua vera natura museale.

Dalla scena al dipinto. Da David a Delacroix, da Füssli a Degas.

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