Fare danni è facilissimo, rimediare ai danni è molto difficile, a volte impossibile. Pare che l’attività umana stia riuscendo a vanificare l’immensa capacità creativa della natura. E’ probabile che la minaccia peggiore per il pianeta non venga dall’esterno (meteoriti, macchie solari o altro), ma dall’interno, dai “padroni” del pianeta.

John Williams ha pubblicato nel 1960 un romanzo avvincente, BUTCHER’S CROSSING, ambientato fra il Kansas e il Colorado ai tempi della caccia al bisonte. Siamo nel 1870 e un giovane studente decide di abbandonare gli studi ad Harvard per scoprire la vita selvaggia (wilderness) nel lontano West. Si imbarca in una spedizione di caccia al bisonte e partecipa alla carneficina di migliaia di bisonti che poi vengono scuoiati e abbandonati sul terreno. Alla fine dell’avventura la valle in cui pascolavano i bisonti appare come una landa desolata disseminata di scheletri. La carne veniva utilizzata solo in quantità minima, il vero bottino erano le pelli, migliaia di pelli, che però al ritorno dalla caccia non valgono più niente e finiscono bruciate in un rogo immane. Inutile dire che i nativi americani non erano contenti dello sterminio dei bisonti e che tentarono di opporsi in ogni modo al loro sterminio, ma fecero in gran parte la stessa fine dei bisonti.

E’ difficile capire perché siano stati sterminati fra i 30 e i 60 milioni di bisonti in America. Di sicuro all’inizio di questa “epopea” qualche cacciatore si è arricchito vendendo le pelli e il poco di carne che si riusciva a seccare e salare. Probabilmente la caccia al bisonte era un tutt’uno con la caccia ai nativi americani, che godevano di scarsa considerazione fra i coloni bianchi e comunque erano visti come un impedimento alla “conquista del West”.

Alla fine pare che siano sopravvissuti qualche centinaio di bisonti. Non andò meglio ai nativi americani. Nelle Americhe, sia del nord che del sud, tra il 1492 e il 1890 sono stati sterminati dai conquistatori europei un numero compreso i 70 e il 115 milioni di nativi americani.

Non è una novità. La razza umana si è comportata così fin dal suo apparire sulla faccia della terra. Lo racconta bene Yuval Noah Harari nella sua Breve Storia dell’Umanità – SAPIENS DA ANIMALI A DEI -
I Sapiens hanno sistematicamente distrutto ogni forma di vita, compresi i loro diretti competitor (H. erectus, Neanderthal, ecc.) ovunque sono arrivati. Hanno iniziato la loro conquista del pianeta 100.000 anni fa, partendo dall’Africa orientale per diffondersi prima nella penisola araba e poi nelle regioni eurasiatiche. 45.000 anni fa i Sapiens arrivarono in Australia. Nel giro di poche migliaia di anni scomparvero 23 delle 24 specie australiane di animali oltre i 50 chili di peso, ma anche numerose specie di taglia minore. La megafauna della Nuova Zelanda venne azzerata nel giro di 2 secoli con l’arrivo dei Maori, i colonizzatori Sapiens della Nuova Zelanda, circa 800 anni fa.

I Sapiens arrivarono in America circa 16.000 anni fa attraverso una lingua di terra che allora collegava la Siberia nord-orientale all’Alaska. Nel 10.000 a.C. erano già arrivati nella Terra del Fuoco. Nel giro di 2.000 anni dall’arrivo dei Sapiens moltissime delle specie presenti in America si estinsero. Il Nord-America perse 34 dei 47 generi di grandi mammiferi esistenti e il Sud-America ne perse 50 su 60.
Nelle isole dell’Oceano Pacifico l’arrivo dei Sapiens, a partire dal 1.500 a.C., causò in pochissimo tempo l’estinzione di centinaia di specie di uccelli, mammiferi e insetti. Le ultime ad essere colonizzate furono le Isole Galapagos, scoperte casualmente nel 1535 e utilizzate per secoli come nascondiglio dai pirati inglesi. Darwin le raggiunse a bordo del Beagle il 15 settembre 1835 e ne descrisse la vegetazione e la fauna, che negli ultimi 2 secoli ha subito una forte riduzione.

VIAGGIO DI UN NATURALISTA INTORNO AL MONDO. Il diario che Darwin tenne nel corso del suo memorabile viaggio (1831-36) è un libro fondamentale per la comprensione della teoria evoluzionistica e più in generale dell’approccio moderno allo studio della natura e delle sue innumerevoli manifestazioni.

La visione antropocentrica di Harari, che pone tutta la sua attenzione sull’azione dell’uomo, a confronto con la visione “naturalistica” di Darwin, che scopre durante il suo viaggio una natura incommensurabilmente più potente dell’uomo e della sua capacità di capire e di dominare i processi. Darwin descrive così le lande deserte di Cape Turn nello Stretto di Magellano: “Le creazioni inanimate della natura – rocce, ghiaccio, neve, vento e acqua, tutte in lotta fra loro, ma tutte unite contro l’uomo, regnavano qui in assoluta sovranità”. E dalla vetta di una montagna andina si domanda: “Chi potrebbe non stupirsi della forza che ha sollevato queste montagne e ancor più per il numero di secoli che sono occorsi per spaccare, spostare e spianare tutta la loro massa? Non possiamo sottrarci alla meraviglia e mettere in dubbio che l’onnipotente tempo non possa ridurre in ghiaia e fango qualsiasi montagna, persino la gigantesca Cordigliera”.

Sicuramente l’azione dell’uomo sta provocando delle conseguenze catastrofiche sugli equilibri della superficie e dell’atmosfera dell’intero pianeta. Con queste conseguenze stiamo già facendo i conti e li faremo sempre più spesso nei prossimi decenni. Quasi sicuramente non saremo in grado di far fronte a queste conseguenze e gli otto miliardi di Sapiens presenti sulla Terra dovranno subire un deciso ridimensionamento. L’aumento della temperatura, la desertificazione di aree sempre più vaste del pianeta e l’innalzamento degli oceani renderanno il nostro pianeta più piccolo, nel senso che saranno sempre più ridotte le aree abitabili e coltivabili. Il fenomeno ci riguarderà molto da vicino, anche se noi preferiamo pensare che saranno “cazzi amari” solo per gli altri: Africa, Asia, America, Australia, Oceania….

Tuttavia, tutti questi sconvolgimenti avranno un’incidenza minima, quasi impercettibile, sul processo evolutivo del pianeta Terra, che esiste da 4,5 miliardi di anni, mentre i Sapiens lo calpestano da appena 100.000 anni. In altre parole ci dovremmo preoccupare, se avessimo un briciolo di buon senso, per il nostro futuro più che per quello del pianeta.

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