Il primo modello, che chiameremo “usa e getta”, tiene conto solo del presente e pretende di avere tutto subito. Il secondo, che chiameremo “cultura contadina”, studia la storia e si preoccupa del futuro. Mettiamo a confronto le due visioni in due contesti diversi: il Lago di Garda e i Monti Lessini.

Anche se non ci fanno caso, tutti gli esseri umani regolano la propria vita in base ad una precisa concezione della vita stessa. Nella nostra epoca la stragrande maggioranza del genere umano mette al primo posto nella scala dei valori il benessere economico, inteso in una maniera particolarmente aggressiva. Siamo tutti ossessionati dall’idea che qualsiasi livello di benessere non è mai sufficiente, non basta mai per farci sentire sicuri. Dai giornali, dalle TV, dai social, dagli economisti, dai politici, dagli influencer, dal cinema e dal supermarket ci viene ripetuto in continuazione che l’unico sedativo capace di calmare la nostra ansia è dato da una capacità illimitata di consumare, di acquistare qualsiasi cosa ci venga proposta.

La macchina deve essere sempre più grande, più potente, più tecnologica, più elettrica, più smart, più green. La casa deve essere nuova, moderna, domotica, coibentata, isolata, protetta, allarmata, inaccessibile agli estranei (cioè a tutti). I figli devono essere superaccessoriati, intelligentissimi, bravissimi a scuola e nello sport, possibilmente migliori dei figli degli altri. I cani non sono meno importanti dei figli e meritano le stesse cure e le stesse attenzioni, anzi spesso sostituiscono i figli nelle dinamiche affettive famigliari.

Che poi questo modello di civiltà pretenda di costruire in continuazione nuove case sempre più efficienti e sempre più costose è una logica conseguenza. Che voglia costruirle nei luoghi più belli e più esclusivi, attorno ai laghi, sulle colline, nelle aree protette, attorno ai siti archeologici e alle antiche pievi, sulla battigia o sulle scogliere a strapiombo sul mare è del tutto prevedibile. Che l’eletta schiera dei politici di destra e di sinistra si dia da fare in tutte le maniere, lecite e illecite, per autorizzare queste nuove costruzioni è scontato.

Con una media di 19 ettari al giorno, il valore più alto negli ultimi dieci anni, e una velocità che supera i 2 metri quadrati al secondo, il consumo di suolo in Italia nel 2021 è tornato a crescere e ha sfiorato i 70 km2 di nuove coperture artificiali in un solo anno.Il Veneto è la regione che ha la maggior superficie di edifici rispetto al numero di abitanti (147 m2/ab), seguita da Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Piemonte, tutte con valori superiori ai 110 m2/ab.  Verona è una delle città con la più alta percentuale di consumo di suolo in Italia. La provincia di Verona nel 2021 ha cementificato 41.199 ettari di suolo (dati rapporto ISPRA 2022).

Qualche sindaco della riviera gardesana orientale vorrebbe far credere che il suo comune rientra nella lista dei comuni virtuosi. Invece di perdere tempo a discutere statistiche e numeri truccati, conviene andare a verificare con i propri occhi la quantità di nuovi cantieri, nuove lottizzazioni e nuove costruzioni che crescono come funghi sulle colline e nelle vallette che si affacciano sul lago di Garda fra Peschiera e Malcesine.

E’ anche scontato che questo modello di civiltà finisca per incentivare qualsiasi evento che preveda grandi assembramenti, perché il grande assembramento comporta grandi profitti per le attività commerciali che insistono sull’area dell’evento. Questo vale per i mega concerti, per i rave party, per la finta casa di Giulietta, per l’isoletta di San Biagio ora raggiungibile a piedi e più in generale per qualsiasi situazione proposta come irrinunciabile dai media e dai social. Osservando certe fotografie di folle allo sbaraglio scattate recentemente viene da pensare che la specie umana abbocchi molto più facilmente delle tinche e dei cavedani e abbia una propensione all’ammucchiamento superiore a quella delle galline negli allevamenti intensivi.

Le dichiarazioni dei sindaci dei comuni benacensi su consumo di suolo, sviluppo del territorio, organizzazione di eventi, creazione di passerelle sul lago e presunti recuperi ambientali sono puramente strumentali e quasi sempre in mala fede. Chi tenta di mettere sullo stesso piano un rave party notturno innaffiato di birra, vino e superalcolici sulle pendici del Monte Baldo e un concerto di Mario Brunello alle 5 del mattino al cospetto delle Pale di san Martino non merita nessuna considerazione. Far soldi e far cultura sono due cose molto diverse e conviene tenerle separate. Che poi la cultura possa anche produrre ricchezza è tutto un altro discorso, che andrebbe sviluppato a parte e che qualcuno, vedi appunto I Suoni delle Dolomiti, ha saputo concretizzare con ottimi risultati.

Questa osservazione ci porta al secondo modello di civiltà, quello della “cultura contadina”, un modello minoritario, quasi sempre perdente e spesso disprezzato dai paladini del modello “usa e getta”.

Perché rispolveriamo la “cultura contadina”? Perché i nostri contadini fino ad una certa epoca, cioè fino a quando sono stati immessi sul mercato i prodotti chimici, si sono preoccupati di conservare e migliorare la fertilità dei terreni che coltivavano, condizione indispensabile per garantirsi la sopravvivenza negli anni a venire. L’uso dei prodotti chimici (fertilizzanti e pesticidi) e delle macchine agricole ha progressivamente fatto dimenticare a chi si occupa di agricoltura tutti i saperi accumulati dai nostri predecessori in secoli e millenni di pratica agricola. Resta un ricordo sempre più sbiadito di quei saperi, tramandato da importanti autori del mondo antico e moderno, ma anche da una saggezza popolare ricca di proverbi e detti.

Fossi, fosse e cavedàgne iè la benedissiòn de le campagne.
Fossi, scoline e capezzagne sono la benedizione delle campagne, perché raccolgono le acque reflue.
Lasseme el me foiame, che te lasso el to luame.
Il fogliame macerato può sostituire il letame.
El campo co la goba dà la roba
Il campo ondulato produce di più.

Sono solo pochi esempi di detti popolari veneti che oggi risultano addirittura incomprensibili, perché i sistemi di coltivazione attuali prevedono di spianare i terreni eliminando fossi e rilievi e sostituiscono la concimazione naturale con i prodotti chimici.

Ciononostante c’è ancora una piccola fetta di umanità, variamente ripartita sul pianeta, che continua a fare riferimento a questa saggezza antica. Si tratta di gruppi marginali, di solito privi di rappresentanza politica e di spazio sui mezzi di comunicazione di massa. Queste persone sanno che il mondo sta andando in un’altra direzione, che la maggioranza rumorosa un po’ alla volta, ma comunque abbastanza presto, riuscirà nell’intento di deforestare, cementificare e asfaltare l’intero pianeta, con tutte le conseguenze che questo comporterà.

Al contrario del primo gruppo, il secondo gruppo mantiene un legame profondo con la propria storia, si nutre dei saperi antichi e cerca di affrontare le diverse problematiche con un approccio consapevole e olistico, dal vocabolo greco antico ὅλος ‘tutto, intero, totale’. Invece di consumare tutto il proprio tempo per accumulare denaro, potere, visibilità, si accontenta del poco che ha, cerca di costruire delle relazioni sane con i propri simili, di mantenere il contatto con la natura, con il ciclo delle stagioni, con il mistero della vita. Per alcune popolazioni indigene questo contatto con la natura è una condizione irrinunciabile per la loro sopravvivenza, per noi occidentali è molto più difficile, ma in tanti ci stanno provando.

Spesso il secondo gruppo viene accusato dal primo di essere sempre contro tutto. In parte è vero, c’è nel secondo gruppo una certa propensione a bocciare qualsiasi proposta operativa, ma questo atteggiamento conservativo ha spesso delle ottime ragioni da far valere.

Facciamo qualche esempio.
Si sa che in montagna nevica sempre di meno e che il circo bianco sopravvive grazie agli impianti di innevamento artificiale. Essere contro questi sistemi di innevamento artificiali non vuol dire essere contro tutto, vuol dire essere a favore di una frequentazione rispettosa della montagna e di un uso sensato dell’acqua. Chi pretende di impiegare quantità esorbitanti di energia, di acqua e di prodotti chimici per produrre delle miserabili striscioline di neve che durano il tempo di un amen dimostra una totale incapacità di leggere la realtà e di adattarsi a dei cambiamenti che nessuno può più negare.

Altro esempio. Il Parco della Lessinia è da anni sotto attacco da parte di un gruppo di scalmanati che sta tentando in tutte le maniere di disintegrarlo, cioè di distruggere la sua integrità territoriale e naturale. Prima la proposta di legge per la riduzione del Parco, poi l’elezione di una serie di personaggi improbabili nei ruoli direttivi del parco, infine la messa in mobilità dei dipendenti della Comunità Montana invece della loro integrazione nell’organico del nuovo Ente Parco, eliminando addirittura per due anni la figura del guardiaparco. L’intento è chiaro e le modalità sono quelle tipiche di chi non ha alcun rispetto per le persone che lavorano e per le norme che tutelano i rapporti di lavoro.

Per fortuna c’è anche un ampio fronte che si rifà ad un modello diverso di civiltà. Si tratta di un fronte trasversale, che non si identifica con una parte politica, un fronte che conosce e frequenta da sempre la montagna veronese, la apprezza e ne sa riconoscere il valore paesaggistico, naturalistico e culturale. A questa gente, che finanzia da sempre, pagando le tasse, la gestione del parco e i contributi agli allevatori e ai proprietari di malghe, non piace per niente il modo in cui questo gruppo di scalmanati sta gestendo il nuovo Ente Parco. C’è nell’aria una contrarietà sempre più forte e sempre più diffusa, che le autorità regionali farebbero bene a tenere in considerazione.

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