Riflessioni, in prosa e poesia, su un fenomeno fastidioso e non tollerato dal nostro sceriffo e dai suoi elettori.

Dalle panchine di Tosi alle pagine de "L'Arena" (vedi la lettera del 5/1/2008 "La ronda della sporcizia" e le successive risposte del 9/1), si moltiplicano le voci sull'opportunità

di normalizzare quelle figure che urtano la sensibilità comune, i barboni, per esempio.

Invece è una fortuna che ci siano, i barboni! I derelitti, i cosiddetti ultimi, gli esclusi, i drogati e compagnia varia. Essi rappresentano un fallimento, non il loro, ma quello del nostro modello di vita. Un modello allucinante che imprime ritmi forsennati e che esclude chi si muove a velocità inferiori.

Un modello che ci appare come una banalissima normalità, ma che in realtà  è un tritacarne che macina tutto e tutti, promettendo un illusorio benessere materiale. Ha stravolto panorami visivi e biologici producendo una "Wasteland", terra desolata, popolata da uomini vuoti, "Hollow men". Il poeta, T.S. Eliot, lo aveva intuito già un'ottantina di anni fa.

Lo avevano capito anche i Pink Floyd cantando i "kids" che non hanno bisogno di "education". Accostandosi in questo modo a Ivan Illich, feroce dissacratore dei piloni portanti della modernità: istruzione, lavoro e sanità.

Progresso: cieco e lineare. Sviluppo: abnorme. Crescita: continua ed esponenziale. Queste le parole d'ordine del Leviatano. Esse vanno di pari passo con la perdita di spirito e persino di pietas. Con l'allentamento e la progressiva distruzione dei legami di solidarietà interspecifici, cioè tra umani, e con il "milieu", l'ambiente, che ci circonda e che ci vivifica.

Esse pongono al centro delle relazioni l'economia, mediata dalla competizione più sfrenata. Invece la Natura, laddove ha qualcosa da insegnarci, insegna cooperazione a tutte le sue scale gerarchiche. È vero che il leone sbrana il povero bufalo ammalato. Ma sia il leone che il bufalo esistono perché le piante danno loro l'ossigeno. Gratis.

I 'normalizzatori', i più rivoltanti tra gli alienati, prima di annullare l'altro, dovrebbero annullare se stessi, ovvero il modello che li referenzia e li alimenta.

Chiudiamo con una poesia, dal greco poiesis: invenzione, creazione. Per prima, essa ha compreso l'orrenda normalità. E adesso ci soccorre, omeopaticamente, per lenire le ferite. "Magna Verona" è dedicata a tutti gli ultimi (o forse i primi?), come 'El Crea'.

Magna Verona

Magna Verona

Verona l'è bela,

Verona l'è bona

(l'è Magna Verona)

la g'à la scarsèla

che s-ciopa de schei...

Però gh'è anca quei

che vive de sponda

che 'speta la Ronda

de la carità...

Verona la ciassa

Verona la sona

(l'è Magna Verona)

la zente va in piassa

i'è tuti fradei...

Però gh'è anca quei

che camina su l'onda

che 'speta la Ronda

de la carità...

Verona g'à amor

(lo giura Giulieta

che l'è la so dona

de Magna Verona)

Verona g'à cor

no gh'è no rancor,

l'abrassa anca quei

vegnudi da fora.

Palanca no manca

par quei che laora

mejo se de Sri Lanka...

"E tuti i moreti

che vende tapeti

e i piassè moreti

che piassa borsete?

Gh'è posto par lori

tra tuti 'sti siori?

O i'è lori tra quei

che vive de sponda

che camina su l'onda

ne l'onda sprofonda

che 'speta la Ronda

de la carità?"

"Te sì 'na carogna

metendo a la gogna

la Magna Verona...

Vardè che miseria!

No te par che stona?

Te par cosa seria?"

"Te sento e me pento

L'è vera ...Verona

no l'è pì santa

no l'è pì bona

de altre çità...

l'è Magna Verona

e finimola qua"

"Va ben, te perdono,

anca se indegno,

...però vorà dir

che te pagarè pegno

Stame ben a sentir,

come ultimo dono

te digo, da amigo,

o mejo te sigo

un gran bel: va in mona!"

"Comandi,però...

a la Magna Verona!"

Luciano Ravazzin



Note:

Chi era 'el Crea'? Si può leggere la risposta nella tragica storia raccontata da Bartolo Fracaroli, cronista de L'Arena.

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