Una analisi nitida, dissacrante ed incisiva del divario incolmabile che si è venuto a creare nel nostro immaginario collettivo tra il paesaggio immaginato e il paesaggio reale.

Sono le otto e mezzo del mattino, un mattino nuvoloso e freddo. Eccomi qui di nuovo a casa a scrivere. Sono appena rientrato da una ricognizione fotografica in località Villa di Negrar (foto 5), una contrada che a Natale ha avuto l'onore di entrare nel presepe della chiesa parrocchiale. Sì, perché, anche a Negrar, come in moltissime altri paesi sparsi sul territorio italiano, si è deciso di festeggiare la natività di Gesù portando uno scorcio del territorio in chiesa, proprio nel presepe. Un'ambientazione della natività tutt'altro che scontata, almeno così sembra. Quindi non più ricostruzioni di paesaggi di una Palestina da cartolina con immancabile nevicata su colline imperativamente libere da fili spinati, barricate antisommossa, carri armati, postazioni di artiglieria e megalottizzazioni per i nuovi coloni israeliani. Quest'anno (mi si permetta di far viaggiare la mente come fossimo ancora sotto le feste) a Negrar la nascita di Gesù è ambientata sotto uno degli archi d'ingresso di corte più conosciuto dai negraresi, quello appunto di Villa, all'incrocio fra via Volpare e via Rita Rosani (foto 1).

Questa mattina sono tornato a Villa con la stessa disposizione d'animo che nei giorni di Natale mi ha fatto entrare nella chiesa di Negrar, munito di cellulare e in preda a una bizzarra pulsione di fotografare il presepe (foto 2-3-4), come se l'atto di fotografarlo potesse, in un modo a me sconosciuto, risolvere una dissonanza che andava via via approfondendosi man mano che i giorni passavano. Se oggi scrivo, è solamente per liberare nel campo della scrittura le mie ruminazioni psichiche e i miei fantasmi. In fondo, che cosa c'è di così inquietante nel presepe di Negrar? Tanto per sgombrare il campo da equivoci, dico subito che fin da piccolo ho sempre avuto una grande passione per il presepe. Una passione tutta mia, tinta di molte domande e di molte proiezioni fra l'erotico e l'euforico, come ad esempio proiezioni sulla bella barba di san Giuseppe, sulle gambe ben tornite di qualche giovane pastore o sul fascino irresistibile dei Re Magi, dai quali avrei voluto essere rapito e amato da tutti e tre di un amore forte e struggente. Una passione che mi spingeva a visitare durante le vacanze natalizie tutti i reparti dell'ospedale e del geriatrico in cerca del presepe più bello e che, in un Natale di parecchi anni fa, mi aveva anche fatto vincere il concorso del presepe organizzato dal compianto parroco don Bruno Lucchini. Ricordo che da bambino desideravo avere in casa niente meno che la natività della chiesa di Negrar. Con grande determinazione e sacrificio, per un paio di anni, decisi quindi di risparmiare tutte le mance della domenica di zia Ada, così da potermi comprare una natività, se non identica, il più possibile simile a quella della chiesa parrocchiale. Finché, dopo due anni di risparmio, riuscii nel mio intento. Andai alla Tavolozza e acquistai con il cuore gonfio di gioia la mia natività. Eccola qui (foto 9)

Ma questo non è il momento per lasciarsi andare ai ricordi di un'infanzia che pure sento più viva che mai e che spero non mi debba mai abbandonare. Per chiudere con questo breve preambolo, voglio solo aggiungere che io non riesco a congedarmi dalle feste di Natale ripetendomi il trito e ritrito ritornello che l'Epifania tutte le feste porta via. Mi è sempre così difficile disfare l'albero di Natale e mettere a dormire pastori, pecore, bue, asino, ecc. Sono sicuro che sotto la mia difficoltà di chiudere con le feste di Natale, non c'è solo la noia del ritorno al tran-tran quotidiano o il non volerne sapere di riprendere il lavoro in ufficio, ma la mia compagna di sempre: l'angoscia, un'angoscia che si radica nel non sapere se fra un anno sarò ancora là a godermi l'idillio del presepe e la magia luminosa dell'albero di Natale.

Qualcuno storcerà il naso e si chiederà: e che godimento c'è nel vedere un presepe? Io non sono uno specialista di presepi e l'averne visti tantissimi non vuol dire niente. Non sono neppure uno storico dei presepi o uno che i presepi li ha analizzati con le affilatissime armi concettuali della psicologia, della sociologia, dell'antropologia o degli studi di genere. Sono anche sicuro che qualcuno avrà pur scritto in preda a una speciale esaltazione dello spirito una mappa dei presepi storici più belli d'Italia, così com'è di moda ai nostri giorni scrivere dei borghi più belli d'Italia, e poi scoprire, con rammarico, che forse quei borghi proprio così belli non sono.

Ciò che mi affascina del presepe, non è tanto il suo significato teologico e religioso (che il Verbo si sia fatto carne e sia venuto ad abitare fra noi è una questione di fede che solo i più fortunati hanno), quanto la generale sospensione dei conflitti che animano le forze della natura, dell'uomo e delle relazioni fra natura e uomo. È come se nel presepe tutti gli elementi naturali e umani che lo compongono riuscissero a entrare magicamente in risonanza uno con l'altro in modo irenico, soave, leggero, ovattato, caldo e sorridente. Nel presepe la redenzione del creato non è un tema su cui speculare, ma circola materialmente in tutto ciò che lo compone. Quella che qui chiamo redenzione non è tanto una liberazione dal peccato e dal male, ma un affrancare la storia umana dalle sue vicissitudini dolorose ed eccessive. Una redenzione, per me, tutta mondana, terrena e quotidiana, che nella messa in scena del presepe si fa opera d'arte in grado di accendere nella mente dello spettatore (credente o non credente poco importa) lo spessore più arcano della fiaba, della magia, della meraviglia e del sogno.

Confesso che tante volte ho nutrito il desiderio di farmi in tutto e per tutto pastore, pecora, bue o asino, e quindi trasformarmi in statuina e vivere nel mondo inaugurato dal presepe. Un mondo in cui le sofferenze e i dolori della vita dei pastori con le loro veglie estenuanti, le doglie del parto di Maria, i timori e le tante paure che la notte fa sorgere, sono come sospesi. La distensione dell'animo che un presepe sapientemente costruito, come quello bellissimo di Negrar, fa nascere; la magia che esso sprigiona; l'idillio in cui ci conduce, sono indisgiungibili dal paesaggio che esso inaugura. Non c'è presepe senza paesaggio. Non certo un paesaggio qualunque. Non ho mai visto una natività ambientata fra capannoni industriali, ai margini di una discarica o fra le palazzine orrende anni sessanta. È come se fosse nel DNA del presepe l'aver espunto da sé quanto di più alienato e alienante viviamo dell'ambiente in cui si consumano vanamente i nostri giorni. Proprio per questo rimando a ciò che non c'è, un non c'è in cui noi però viviamo, il presepe altro non fa che metterci continuamente di fronte la possibilità di un'utopia in miniatura, molto materiale, molto sensibile, quasi fosse l'unica incarnazione possibile di un messaggio di liberazione dall'alienazione in cui è invece sprofondato il nostro ambiente di vita. Ancora una volta, un paesaggio, quello del presepe, che non è sconvolto dalle attività dell'uomo, rovinato dalla protervia volontà di chi concepisce il territorio solamente come piattaforma per i propri affari, martoriato, come è per la vallata di Negrar, dalla speculazione di immobiliaristi e di produttori di vino che in nome dell'ossessione del profitto spruzzano in aria veleni, spianano colline, disboscano in barba alla comunità e alla legge per far posto a orrendi vigneti industrializzati. Un presepe, si potrebbe dire, stando alla terra che proprio qui, a Negrar, terra di Recioto e di Amarone, come ama gridare da sempre ai quattro venti la spocchia degli amministratori locali, ha dato patria al termine, tutt'altro che "negrarizzato". Sì, un presepe de-negrarizzato, con un paesaggio finalmente redento dalle ferite che continuamente il territorio mostra e che, con sicumera, non smette di produrre. So che sto interpretando il presepe con la testa piena di fantasmi e di pregiudizi. Ah, se solo avessi il tempo di scrivere un'estetica del presepe! Un'estetica in cui poter far luce sulle modalità con cui un presepe riesce ad accendere nel cervello di chi lo contempla quello che il poeta Paul Valéry chiamava un "infinito estetico", e cioè un godimento che continua ad alimentarsi da sé e che non cessa se non per motivi che sono esterni e del tutto accidentali al suo stesso riprodursi.

Vengo ora alla mia dissonanza. Perché era ed è una dissonanza non solo cognitiva, ma anche estetica e memoriale, dal gusto amaro e acido, quella che il presepe di Negrar, nella sua onirica bellezza, aveva fatto nascere nella mia testa. Una dissonanza irrisolta e irrisolvibile. Una dissonanza che può essere solo assunta e vissuta come tale. Una dissonanza tanto più forte quanto più, ammirando la bellezza del presepe, mi sentivo invadere la mente dalle immagini dello scasso paesaggistico in cui la contrada di Villa è stata piombata (foto 6-7-8). Ma è Natale! si dirà. Lasciateci vivere questa breve utopia di una contrada non più massacrata da palazzine e capannoni, senza più vedute su colline livellate coperte da marogne in stile Trump, tanto sono là a urlare la loro ignobile presenza; una contrada senza quel nuovissimo essiccatoio delle uve, certamente non l'ultimo di una stirpe che continua a infestare il territorio, sorto, nel caso di Villa, proprio all'entrata della contrada; insomma, una contrada, dico, libera da tutto quello che la circonda, anche da quella scritta WINE SHOP all'orizzonte posta in bella vista sulla facciata di una casa, senza alcuna vergogna. Almeno un giorno, lasciateci sognare! Così dicono i cervelli che della negrarizzazione hanno satura la mente e il corpo.

Sono stati bravissimi i costruttori del presepe di Negrar. Hanno lavorato cesellando con finezza ed estrema cura il dettaglio (foto 2-3-4). Sì, perché, come dice un'abusata affermazione, che qui vale però la pena di ripetere, "Dio è nei dettagli". E i dettagli qui contano. Qui, intendo nel presepe, i dettagli sono tantissimi e tutti rimandano a un unico respiro, a un profondo desiderio di proiettare sulla materia una bellezza che nella realtà della contrada di Villa non c'è più, ma che doveva essere risuscitata proprio nel giorno di Natale, forse per non dimenticare che la bellezza non viene solo a confortare l'esistenza, ma anche a scuoterla e a risvegliarla dal grigiume cementizio che ci circonda. Quanto devono aver lavorato per via di levare i cervelli che hanno costruito il presepe di Negrar! Via il catrame sulla strada, via palazzine, ville e villone, via le colline livellate dalla stupidità umana, via i capannoni industriali che s'incontrano camminando per via Volpare, via i tralicci che da una parte all'altra della strada incorniciano a loro modo l'annunciazione dell'angelo a Maria e la bella statua di San Rocco, via la strada che smussa la visibilità dell'arco della natività, via la campana di raccolta del vetro, via la centralina del gas metano, via soprattutto quel bruttissimo casotto che i proprietari si guardano bene di nascondere come possono con olivi e una rete verde a maglie strette, costruito proprio in quella che fu una delle più belle corti del comune di Negrar, all'entrata della quale è stata appunto collocata la natività di Gesù. Dio mio, ti viene da chiederti, come è stato possibile tutto questo? Come è stato possibile un tale scasso? Eppure, lì, sotto quell'arco, Cristo è tornato a nascere e a inaugurare un mondo nuovo di cui ora non restano però che rovine e macerie.

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