La saga di Jason Bourne, pietra miliare del cinema di azione, è sorretta da una serie di romanzi assolutamente non all'altezza. E pure lo sceneggiato televisivo, del 1988, delude. È una delle poche volte in cui il film è anni luce migliore.

È una delle frasi fatte più in voga tra lettori di libri e cinefili: "era meglio il libro". A prima vista sembra però un confronto impari. Un libro di narrativa ha la possibilità di far immergere il lettore nella storia per circa venti ore pulite, mentre un film, in due ore deve spararvi fuori tutta la trama. Pensate a quanti particolari in più si riesce a prestare attenzione in un libro ben scritto, rispetto a un film. Senza contare che il libro raramente viene letto tutto in una volta, e che le pause fanno decantare nomi, ambientazione, personaggi ed emozioni, amplificando il risultato finale.

Per cui, a parità di qualità di scrittura (letteraria o cinematografica), un libro ha certamente migliori chance di far provare piacere e di restare scolpito nella memoria del fruitore. Quindi, la prima reazione alla frase "era meglio il libro" è quella di dire "e te credo!" Anzi, un romano, direbbe, con molta più efficacia, "graziarcazzo". Un veronese, con meno efficacia, direbbe "gran fatti."

Ma, nonostante questa disparità di mezzi, non sempre la frase rappresenta la verità. Anzi, vi sono numerose eccezioni, tanto che dire "era meglio il libro" è ormai diventato un luogo comune, una frase trita, senza significato. Chi ha amato la saga di Jason Bourne sul grande schermo, tra inseguimenti mozzafiato, botte, sparatorie e complotti perversi, potrebbe avere presente quello che sto dicendo.

Qualche tempo fa, ho scoperto per caso che, dall'originale romanzo (anzi, serie di romanzi) di Robert Ludlum, era stata tratta, ben prima della saga cinematografica, una miniserie televisiva, nel 1988. I protagonisti di questo film-TV erano due divi della TV-spazzatura degli anni '80: Richard Chamberlain, il padre Ralph di "Uccelli di rovo", e Jaclyn Smith, una delle terribili Charlie's Angels. Il che, paragonando questi due a Matt Damon e Franka Potente, configura già un reato di lesa maestà retroattiva.

Mi sono precipitato a scovare lo sceneggiato, e l'ho trovato qui, (in inglese). Beh... Devo dire: mi aspettavo decisamente peggio. Vi sono modi certamente peggiori di impiegare due ore e cinquanta del vostro prezioso tempo. Intendiamoci: il risultato finale è tutto sommato deludente, ma non per colpa degli attori. Se si riesce a superare l'antipatia per le acconciature sempre perfette, e l'abbigliamento impeccabile (però ricordiamo che siamo negli anni 80), il cast non se la cava poi malaccio.

Il contrasto col film del 2002 è comunque impietoso, anche a livello stilistico: Matt Damon è un Bourne più forte e agile, che risalta anche per il suo sguardo torvo, tormentato da dilemmi morali e tattici. La sua controparte femminile, la sorprendente Franka Potente, è elegante, decisa, intelligente, di una bellezza intensa, ma non banale. Una complice morale e narrativa che tiene testa al protagonista. Nella miniserie TV, invece, padre Ralph è goffo e compassato, e la Charlie's Angel troppo patinata.

Ma il limite dello sceneggiato non sono loro due. Il problema è più vistoso e profondo: la trama. La storia è intrigante, certo. Ci sono assassini letali, spie, segreti inconfessabili, ma alla fine lo smemorato Bourne non è costretto ad accettare il suo torbido passato: scopre invece che non è l'assassino che credeva di essere. Era stato un po' messo in mezzo. È come se l'Innominato manzoniano scoprisse di aver sognato la sua vita precedente, e di essere stato soltanto un impiegato del catasto. Al che, mi è venuta voglia di leggere il romanzo originale (The Bourne identity. Un nome senza volto - di Robert Ludlum - Rizzoli, 2003 - prima edizione 1980), per verificare da dove nascesse la pirlaggine.

E la pirlaggine veniva dal libro. Se avete intenzione di leggere il romanzo di Ludlum, preparatevi a un piccolo trauma: il testo è una ciofeca. Non perché Ludlum non sappia scrivere: anzi, come dicevo prima a proposito dello sceneggiato, la suspense c’è. Ma, rispetto al film, la storia appare quasi ingenua, e la saga televisiva ha rischiato di farmi dubitare dei miei stessi gusti cinematografici.

Per spiegare tutto, procediamo al contrario, come piacerebbe al generale Vannacci, iniziando dal film. Il film del 2002, per la regia di Doug Liman (sempre sia lodato) funziona su tre livelli ben distinti, e tutti e tre contribuiscono a farlo diventare qualcosa di più di un semplice thriller d’azione.

Il primo livello è banale ma essenziale: cazzotti a raffica. Bourne picchia, calcia e neutralizza avversari come una versione moderna di Bruce Lee. È pura adrenalina cinematografica, e il film non cerca di nasconderlo: il pubblico ama guardarlo fare miracoli fisici, e questo basta già a tenerlo incollato allo schermo.

Il secondo livello è più sottile: il Potere non è amichevole, né protettivo, né una forza positiva che difende l’umanità da criminali, come avviene nelle storie farlocche di James Bond (cazzotti sì, ma cazzotti mainstream). Qui il Potere è malvagio. La CIA e Treadstone non sono dalla nostra parte: sono macchine fredde che addestrano assassini, manipolano vite e sacrificano uomini come se fossero pedine in un gioco di scacchi globale. Ogni volta che Bourne scopre la verità, il pubblico prova un brivido: non si tratta di un inganno romantico o di un mistero spionistico elegante, ma di un mondo dove le istituzioni sono crudeli e spietate.

Ma c'è un terzo livello, il più affascinante, la memoria. È un tema filosofico-esistenziale. Bourne perde la memoria, e con essa il percorso che lo aveva trasformato in un killer letale. Non è il corpo, non è la mente, ma è il vissuto che costruisce la personalità di ciascuno di noi. Quando il vissuto crolla, come accade a Bourne, si apre la possibilità di creare un nuovo “io”, un uomo che non è più condizionato dal passato, dalle colpe o dall’addestramento. Il film fa qualcosa che il romanzo di Ludlum non osa nemmeno sfiorare: la memoria diventa campo di battaglia morale e terreno di riflessione sulla libertà individuale.

Proseguiamo con lo sceneggiato televisivo del 1988, con Richard Chamberlain e Jaclyn Smith. È qui che le delusioni cominciano. Se pensate che Bourne fosse un concentrato di tensione fisica e morale come Matt Damon, vi sbagliate di grosso. Chamberlain, pur simpatico e affabile, sembra più un prete in amore che un ex-assassino in fuga; Smith, pur elegante e magnetica a suo modo, appare spesso più impegnata a stare ben pettinata che a sostenere una vera suspense. La recitazione è stilizzata, il ritmo lento e la sceneggiatura ingessata: si ha costantemente la sensazione di guardare un melodramma vestito da thriller. In altre parole, se il film è un’operazione di precisione chirurgica, lo sceneggiato TV è un esercizio di stile per aspiranti cinematografi.

Ma, come detto,i due ragazzi glamour riescono a essere convincenti. È la trama a crollare. Nello sceneggiato TV, Bourne non è mai stato un assassino. Nell'operazione spionistica che fallisce facendogli perdere la memoria, lui non era in realtà uno spietato sicario, ma fingeva di esserlo per accreditarsi presso Carlos, il terrorista internazionale. L’amnesia non genera conflitto morale o riflessione esistenziale: serve solo a creare suspense da spionaggio classico.

Poi viene il libro. Qui la situazione peggiora ulteriormente. Il libro è il responsabile dell'assoluzione di Bourne, Non c’è peso reale sulle sue spalle, non c’è colpa da affrontare, nessun percorso interiore da compiere. L’autore costruisce il mistero: “Bourne è Cain il sicario?” La risposta arriva quasi subito: no, non lo è mai stato. La tensione psicologica, che nel film ti fa mordere il bracciolo della poltroncina, qui evapora. È come scoprire che il mostro sotto il letto non esisteva.

Sul piano del potere, il romanzo cerca di sembrare complesso, ma anche qui la differenza con il film è marcata. Treadstone non è malvagio, non è un programma criminale che sfrutta e sacrifica esseri umani: è un progetto legittimo, magari un po' arzigogolato, per neutralizzare un terrorista. La CIA non è crudele, è solo molto efficiente. Nel film, invece, il potere è un antagonista a tutto tondo: il nemico più pericoloso non è Carlos, ma la CIA,  la stessa macchina che ha creato Bourne l'assassino.

E poi c’è la memoria. Nel libro, è quasi un oggetto di scena. Bourne non deve fare i conti con colpe reali, non deve riconciliare un passato atroce con un presente possibile. La sua identità non è in crisi esistenziale: è un falso thriller morale. Il film ti fa riflettere sul senso del libero arbitrio, sulle possibilità di reinvenzione del sé, nel libro tutto si riduce a una banalità narrativa. È il classico effetto “siiì, beeehn, insomma”: si legge, sì, ma l’impatto emotivo e filosofico è nullo.

Insomma, per chi ha visto prima il film, l’esperienza della saga televisiva e poi del libro è straniante. Chamberlain e Smith sono adorabili come attori trash anni ’80, ma non possono far altro che recitare in una versione edulcorata di Bourne; Ludlum costruisce suspense, ma il pathos morale e l’introspezione del film svaniscono. Damon e Potente, con la loro chimica e la loro fisicità, incarnano la possibilità di un thriller che non è solo inseguimenti e sparatorie, ma anche filosofia pop.

Il genio non è quindi Robert Ludlum, ma la persona che ha adattato il soggetto per il film del 2002, ovvero Tony Gilroy. Secondo questa trascrizione, la memoria determina chi siamo, e la libertà nasce dal confronto con il passato. E non dimentichiamo lo splendido tema musicale del film: "Extreme ways" di Moby, che ripete, come un mantra, "è andato tutto a rotoli".

Alla fine, il paradosso è chiaro: in questo caso, il film supera il libro. La saga cinematografica non tradisce la materia prima: la amplifica, la rende più profonda, più intensa e più moralmente complessa. Il libro resta interessante come compitino per una scuola di thriller, ma se vi aspettate la tensione esistenziale e la riflessione sulla costruzione del sé che vi ha colpito sullo schermo, rimarrete inevitabilmente delusi.

E forse, chiudendo il libro, vi ritroverete a pensare, come ho fatto io: “Era meglio il film.” Se volete, potete scrivere nei commenti tutte le volte che lo avete detto anche voi.

 

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