Il testo completo dell'arringa di Guariente Guarienti, avvocato della difesa nel Processo agli alberi.

 

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Signori della Corte, o meglio, giudice unico, libero, colto, amante della natura e degli alberi ma incorruttibile, ascolti!

Ecchecavolo!

Ho seguito con attenzione, oserei dire, per quanto mi é stato possibile, con umana partecipazione, la dura, elegante, raffinata, fantasiosa requisitoria del pubblico ministero, uomo d'onore che passeggia in piazze assolate, vive in un grattacielo, dentro un piccolo cubo, odia i fiori, le farfalle, gli uccelli, i libri, l'ossigeno, adora il cemento, di cemento forse si nutre ma é pur sempre uomo d'onore. Ama le macchine da corsa e le macchine in genere che gli danno modo di ammirare, toccare, apprezzare l'unico albero che rientra nel suo ristretto orizzonte culturale: l'albero motore - l'ha detto lui, non invento - quell'albero che non é un albero, che usurpa il sacro nome di albero, che non dà foglie, frutti, ombra, riposo e silenzio, ma produce rumore, ossido di carbonio, fumi e sporcizia.

Da questi, che mi vergogno chiamare alberi, nasce l'inquinamento che gli alberi, quelli veri, contrastano; nasce l'aria irrespirabile, nascono i tumori. Ogni albero motore in movimento, inserito in una macchina, dovrebbe, secondo i nostri governanti, sostituire un albero vero. In questo momento non posso che rendere omaggio al maestro Abbado che rifiuta di dirigere alla Scala di Milano fino al momento in cui il Comune del capoluogo lombardo non avrà piantato diecimila nuovi alberi.

Da noi si taglia, si sradica, si sega senza pietà, senza rispetto per la vita di questi nostri amici che vivono, crescono, respirano e per la nostra vita che dalla loro esistenza tanto riceve.

Si abbattono gli alberi per costruire case, sovente orrende, destinate per lo più a rimanere disabitate, per costruire parcheggi senza minimamente pensare che la maggior parte degli attuali, pensati sopra rovine romane e medievali, non arriverà al suo termine mentre altri rimarranno vuoti, come é accaduto anche nell'attuale stagione turistica.

Con la scusa della sicurezza - quanto male ha fatto e continua a fare l'improprio ricorso a questa parola - si abbattono gli antichi e meravigliosi alberi che costeggiano sui due lati strade comunali, provinciali e statali e, in qualche caso, intrecciando le chiome più alte, creano momenti di bellezza e di refrigerio a chi passa utilizzando, necessariamente, quell'albero che il mio contraddittore, uomo d'onore, unico apprezza e ama.

Prima di passare ad argomenti più seri mi corre l'obbligo, direbbero i giuristi, di correggere un riferimento poetico che, stravolgendolo, il mio avversario utilizza per un discorso che lui definisce, "un pò più colto".

Ha trasformato il primo verso di una notissima poesia di Carducci a suo uso e consumo. "L'albero a cui tendevi la pargoletta mano" é un clamoroso falso che la critica duecento anni fa ha demolito. "L'albergo cui tendevi la pargoletta mano, l'hotel del Melograno....". Questo il testo esatto.

La poesia nasce da una sofferenza infantile del Carducci. Mai il padre accolse la richiesta del bambino di passare una settimana al mare, a quell'hotel del Melograno che aveva trovato su internet.

Di qui la dolente poesia "Pianto antico", antico perché venne scritta quando il poeta aveva ormai settant'anni eppur ricordava ancora l'antico dolore.

Perché, la domanda é retorica, per elevare il suo discorso, il pubblico ministero, sempre ricorrendo al Carducci, non ha citato i "cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar...."? Perché non ha ricordato i "giganti giovinetti" che "balzarono incontro" al poeta, il loro invito a sedere alle loro "ombre odorate"?

"Bei cipressetti, cipressetti miei, fedeli amici di un tempo migliore ....".

Ma veniamo ad argomenti più seri "Verona e gli alberi", potremo intitolare la seconda parte del nostro intervento.

Il mio collega, avvocato Girelli, Vi leggerà un breve testo dello storico Giuseppe Biadego scritto e pubblicato nel 1919 e ripreso dal Messedaglia nel 1953 in un saggio significativamente intitolato "Verona, nemica del verde".

(Il testo completo sarà pubbliacato in prossimo articolo)

Negli ultimi cent'anni vi chiedo e mi chiedo, le cose sono, forse, cambiate? Si, sono cambiate, in peggio. Si taglia, si sradica, si abbatte, si sega, si sega, si sega. Quello che il mio egregio contraddittore propone come auspicio é una dolorosa realtà.

Si inventano malattie per abbattere alberi vetusti, si proclamano necessità pubbliche, si invoca il progresso. Ecco il necrologio degli ultimi due anni:

Tutti gli alberi della Caserma Martini;

Tutti gli alberi di piazza Corrubio;

180 alberi alla Passalacqua;

300 pioppi alle ex cartiere;

150 alberi al Boschetto;

127 alberi in circonvallazione Torbido;

24 Robinie in Regaste San Zeno;

Il disboscamento al Forte del Chievo;

Tutti gli ippocastani di Stradone S.ta Lucia;

La strage, perché di vera strage si tratta, nel piazzale della stazione di Porta Nuova.

Questi sono solo i più significativi tra gli albericidi degli ultimi due anni ma non posso dimenticare il magnifico cedro del Libano delle scuole materne Perini e il pioppo della torre dell'orologio di Castelvecchio.

Un rischio mortale ha corso qualche anno fa l'albero forse più bello della nostra città: il ginko bilobo dei giardini delle Poste, che in autunno é una sinfonia di giallo luminoso.

Lo conosciamo tutti, è a cento metri da quì.

Un parcheggio progettato sotto le sue radici lo avrebbe probabilmente portato alla morte.

Solo la tenacia dell'allora presidentessa della prima circoscrizione riuscì a far modificare il progetto. Finì male per loro anche questa volta, per merito delle cantine di Cangrande.

Al mio valoroso contraddittore va l'onore delle armi.

Col solo aiuto dell'assente Pino Disbosco ha tentato di convincerci che abbattere gli alberi é un dovere. Vi confesso che mentre parlava pensavo al rischio che i suoi appassionati argomenti potessero far breccia nella vostra mente. Poi ho pensato ad una città di cemento, a piazze e strade senza alberi, a giardini fatti solo di ghiaia e di panchine antistranieri. Questa dolorosa immagine mi ha ridato fiducia. In questo momento sono certo che non le mie parole ma la verità dei testimoni poeti e ancor più la verità della vita vi porterà a respingere le richieste della pubblica accusa e condannare il Comune di Verona a sostituire ogni albero abbattuto con un albero nuovo della stessa famiglia e delle medesime dimensioni e a rimborsare, com'é giusto accada ai perdenti, spese, competenze ed onorari sostenuti per questo processo.