Uniamo in questo articolo le riflessioni di Luciano Zinnamosca e di un grande americano assassinato dai suoi concittadini.

Che dire delle frequenti discussioni sull'opportunità di accogliere e ospitare le migliaia di "clandestini" che ogni anno migrano nel nostro paese in cerca di una opportunità per migliorare la propria esistenza? Sarebbe opportuno, anzitutto, comprendere che cosa significa la parola "clandestino". E' sufficiente varcare il confine di un paese, senza autorizzazione, per essere definito "clandestino"? Quale destino nascosto può rendere estraneo un uomo alla terra in cui ha scelto di vivere, magari diversa da quella di nascita?

Certamente, cercare un posto migliore, deve poter essere nelle nostre possibili scelte, se nasciamo là dove non c'è di che sfamarci o dove c'è guerra, e sofferenza, e silenzio coatto. Il mondo dovrebbe essere di tutti, senza confini; nessuno dovrebbe sentirsi definire clandestino, in qualsiasi parte del mondo egli si trovi o voglia migrare.

Che cosa di fatto vogliamo difendere quando cerchiamo di impedire, ad esseri umani di altre nazioni, non considerate affini, di raggiungere le "nostre" terre. Qual è il requisito inviolabile per definire quelle terre "nostre". Forse il fatto che noi le occupiamo da molto più tempo di chi vuole raggiungerle da altre terre lontane? Ma, prima che noi, o i nostri progenitori ci insediassero sulle "nostre terre", a chi appartenevano? Non le abbiamo forse occupate anche noi senza una particolare autorizzazione?

 

Spesso sono state l'arroganza e la prepotenza del più forte a conferirgli il potere di definire propria una terra, un oggetto qualsiasi o addirittura una persona. Pensiamo alle conquiste spagnole e portoghesi, in sud America, o all'occupazione delle terre del nord da parte degli europei. Pensiamo a intere popolazioni sterminate da chi, occupando per desiderio di conquista le terre sulle quali quelle genti erano vissute da millenni, ne aveva assunto la proprietà, arrogandosi il diritto di vita e di morte sulle popolazioni indigene. Penso ai Sioux, agli Apaches, ai nativi dell'Arizona, della California relegati nelle riserve dai civili europei, sbarcati oltre oceano in cerca di ricchezza e di fortuna.

I neri d'Africa furono fatti schiavi. Deportati dalle loro terre di origine, non furono considerati clandestini da chi li volle asservire, in paesi e città che non poterono mai considerare propri. Chi può aver conferito ad alcuni il "diritto" o il potere di considerare schiavi esseri umani di razze diverse dalla propria, di poterli trasferire, con la forza, dai luoghi di origine per assoggettarli alla propria volontà, usandoli come servitori, "strumenti" privi di identità umana e quindi non degni di rispetto?

La Repubblica del 30.08.09 riporta uno scritto di John Fitzgerald Kennedy del 1957. Sembra scritto ai nostri giorni:

 

  "Oggi, in un' epoca in cui grazie ai mezzi di comunicazione di massa a un capo del mondo si sa tutto ciò che accade nell' altro, non è difficile capire come la povertà o la tirannia possano spingere una persona a lasciare il proprio paese per un altro. Ma secoli fa l' emigrazione era un salto nel buio, era un investimento intellettuale ed emotivo enorme. Le forze che indussero i nostri antenati a quella decisione estrema – lasciare la propria casa e intraprendere un' avventura gravida di incognite,rischi e immense difficoltà – dovevano essere soverchianti. Durante il viaggio erano esposti alle malattie, agli incidenti, alle intemperie e alla neve. Le navi erano stipate di passeggeri, dai quattrocento ai mille, buttati in ogni angolo. Su molte navi le persone più alte di un metro e settanta non potevano neanche stare in piedi. Le malattie – colera, febbre gialla, vaiolo e dissenteria – facevano strage: uno su dieci non sopravviveva alla traversate. Sul finire del Diciannovesimo secolo l' emigrazione verso l' America subì un cambiamento notevole. Cominciarono ad arrivare , in gran numero, italiani, russi, polacchi, cechi, ungheresi, rumen, bulgari, austriaci e greci, creando nuovi problemi e dando origine a nuove tensioni.

Già nel 1910 in molte città esistevano delle "Little Italy" o "Little Poland" dai confini ben definiti. Stando al censimento del 1960, abitavano più persone di origini o di genitori italiani a New York che non a Roma. Un Giornale di New York riservò ai nuovi immigrati italiani parole impietose: "Le cateratte sono aperte. Le sbarre abbassate. Le porte sono incustodite: La diga è stata spazzata via: La fogna è sturata. La feccia dell' immigrazione si sta riversando sulle nostre coste".

Conclude JFK: "Le leggi sull' immigrazione dovrebbero essere generose, dovrebbero essere eque, dovrebbero essere flessibili. Una tale politica sarebbe una conferma dei nostri antichi principi. Esprimerebbe la nostra adesione alle parole di George Washington:  Il grembo d' america è pronto ad accogliere non solo lo straniero ricco e rispettabile, ma anche gli oppressi i perseguitati di ogni nazione e religione; a costoro dovremmo garantire la partecipazione ai nostri diritti e privilegi, se con la loro moralità e condotta decorosa si mostrano degni di goderne".