Il petrolio russo, oltre il 12% della produzione mondiale, ha raggiunto il picco. D'ora in poi l'estrazione sarà sempre inferiore a quella precedente. Motivi geologici si mescolano a politica e gossip.

La scorsa settimana, il Wall Street Journal ha riportato la notizia che la produzione di petrolio in Russia, per la prima volta in un in decennio, è in declino. È una notizia particolarmente delicata, visto che la Siberia è stata a lungo considerata l'ancora di salvezza per compensare il cali nell'estrazione di petrolio nel mare del Nord e nel Golfo del Messico.

Il vicepresidente di Lukoil, il gigante del petrolio russo, ha dichiarato alla stampa che la produzione annua russa di petrolio non sarà mai più superiore a quella dell'anno precedente. In altre parole, la Russia ha raggiunto il picco del petrolio. La notizia è di peso: la Siberia si colloca al secondo posto dell'estrazione di oro nero, con più di dieci milioni di barili/giorno, quasi un ottavo della produzione totale mondiale.

Da una parte, questo è dovuto al fatto che, oggettivamente, i giacimenti estrattivi siberiani stanno esaurendo.  D'altra parte, si è fermata la ricerca di nuovi giacimenti, a causa della politica di scontro che le autorità russe intendono giocare nei confronti delle compagnie petrolifere Occidentali. Le sette sorelle sembrano restie a investire in Russia, il cui settore petrolifero è dominato da stato, servizi segreti e arresti eccellenti.

Come al solito, notizie oggettive di carattere geologico (l'esaurimento dei giacimenti siberiani) si mescolano a fumose notizie economiche, a base di strategie politiche, militari, commerciali e gossip. Così sfugge all'opinione pubblica il concetto di fondo: stiamo finendo le scorte del maggiore pilastro del nostro sistema economico.

Prendono corpo le previsioni più buie del mondo finanziario, che ritengono i 115 dollari al barile un valore troppo basso. Ora che la Russia non può più compensare la domanda crescente proveniente da Cina e India, è evidente che il prezzo schizzerà ancora in alto.