Non per tutti Natale è una bella festa.

Nell'angolo buio, il ticchettio della sveglia, incurante della notte, si fonde a quello, più lento, di una flebo che inconscia racconta la vita al silenzio di un corpo che della vita non ha più ricordo. Sulle colline vicine i latrati di un cane uscito alla pioggia. Tre elfi aspettano tra i cartoni di un cortile vicino, nessuno più bada a loro, tutti intenti a cercare il diverso tra barboni, immigrati e sparuti zingari.

 

Dalla solita radio una stanca voce ripete la nenia quotidiana dei dettati del governo, i soliti ubriachi al volante, i soliti processi senza fine, i problemi di una chiesa che lontana dal popolo sopravvive a forza di dogmi, e il calcio, non lo sport, solo il calcio, per un popolo che non chiede altro.

 

Non c'è notizia delle centinaia di migliaia di disoccupati, di quelli in eterna cassa integrazione, di quelli che del precariato conoscono la pena, dei pensionati senza speranza, della solitudine di troppi, anche a Natale.

Già, Natale, i tre elfi tra i cartoni aspettano Babbo Natale.

 

Non che sia un loro amico, non che lavorino per lui, solo lo aspettano perché lo hanno chiamato, non per un regalo, solo hanno qualcosa per lui. La sveglia intanto si scopre vicino a mezzanotte.

 

Che strano il tempo, corre in tutti i paesi, anche in questo buffo paese, pensavano gli elfi. Già un paese proprio buffo si dicevano, dove i governanti, laici e religiosi, pensavano solo ai propri interessi, e trattavano il loro popolo come se ne fossero i carcerieri, cancellando, sorridendo, i sacri principi di libertà, tolleranza, carità e speranza.

Bastava vederlo quel paese per rattristarsi, non che gliene importasse qualcosa agli elfi, confinati in mille libri tutti uguali e presto dimenticati, ma che pena un mondo senza umani, si dicevano, mentre un campanile batteva mezzanotte.

 

La pioggia nascondeva anche le nuvole, e le strade presto si svuotarono, lasciando a quattro ragazzetti il campo per calciare qualche lattina, tra una bestemmia e l'altra. Angelo, solitario barbone, cercava un posto dove dormire, con la pioggia le panchine non sono salutari dopo i cinquant'anni.

 

Anche Angelo bestemmiava per tutti gli angoli buoni coperti di vomito e piscio. Non c'è Natale per la barbarie quotidiana, pensò, non che fosse un filosofo, ma Angelo si era allontanato dagli uomini per essere uomo. I tre elfi guardarono ancora in cielo, Babbo Natale era in ritardo, come al solito, commentò uno di loro. Videro infine delle luci tra le gocce di pioggia. È lui, esclamarono insieme, Angelo non si accorse né delle luci né di loro, si era buttato su una panchina a dormire, alla faccia della pioggia e dei cinquant'anni passati.

 

Babbo Natale intanto confabulava con gli elfi, che gli indicavano qualcosa tra i cartoni, lui si prese un attimo di tempo, loro pensarono che si trattasse di un ultimo regalo da consegnare. Babbo Natale entrò in quella stanza dove nel ticchettio della sveglia si inseriva quello della flebo, si avvicinò a quel corpo spento da troppo tempo, sorrise a quel volto che un tempo aveva sorriso e staccò tutte le spine che lo stavano affaticando, il ticchettio della sveglia si accorse di essere restato solo, ma non udì Babbo Natale uscire dalla stanza.

 

Lui era tornato dagli elfi e in braccia aveva un neonato, era quello il "qualcosa" che avevano trovato tra i cartoni, un piccolo immigrato abbandonato. Babbo Natale promise loro di portarlo a dormire lontano da quel paese poco accogliente, intanto per quella notte, lo avrebbe appoggiato sul caldo dorso di quella stella cometa che passava alta, sopra la pioggia e il grigio di quei luoghi.

 

La radio non disse niente di quello che era successo, parlò degli ubriachi al volante, dei grandi processi, del calcio che sarebbe venuto. Angelo si rigirò sulla panchina, i tre elfi si infilarono sotto i cartoni, mentre nelle loro case i bambini, anche quelli dei disoccupati e dei precari, aspettavano l'alba per scoprire un regalo sotto l'albero, e un altro bambino dormiva, adesso, sul caldo dorso di una stella cometa.